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Il futuro? Scelte con una nuova consapevolezza del nostro valore umano
(Patrizia, Londra)

Grazie per l’opportunità di contribuire al meraviglioso e inspirationalnetwork di Italiani di Frontiera con questo breve testo.
Gli ultimi tre mesi sono stati a dir poco surreali, un mix di tragedie e momenti soprendenti, tra lacrime e gioia, pannolini e gin & tonic!

Devo ammetere che la quarantena inaspettata ha messo a dura prova la mia famiglia, composta di sei persone, ma complice il duro lavoro che abbiamo dovuto fare e la convivenza forzata, sono convinta che ne usciremo migliori come individui e certamente più uniti.
Sono mamma di tre figlie e archeologa, lavoro come Consulente per i Beni Culturali e l’Archeologia a Londra per un’azienda multinazionale. Con la mia azienda, siamo impegnati a gestire il vasto patrimonio storico-architettonico che verrà impattato dalla costruzione di una nuova linea ferroviaria. Un’operazione complicata che richiede sia qualità tecniche che strategiche, in quanto questa nuova ferrovia è il più grande progetto infrastrutturale dell’Inghilterra.
Dal punto di vista lavorativo, questo periodo si è presentato più duro del previsto: nonostante l’offerta del governo Inglese di supportare finanziariamente la cassa integrazione, la mia azienda ha deciso di continuare a lavorare come se nulla fosse e di completare i progetti approvati pre-Coronavirus, secondo le tempistiche e le modalità’ previste. Da un punto di vista di business, la nostra è sicuramente una posizione privilegiata se si considera che il lockdown ha messo seriamente in crisi tantissimi settori dell’economia e ha già causato la perdita di molti posti di lavoro. Da un punto di vista umano, aspettarsi che i lavoratori siano in grado di sostenere un ritmo di lavoro normale da casa, con le scuole chiuse e tutti i disagi che ne conseguono, ha dell’incredibile.
Questa situazione, e la fatica e la sofferenza che ne sono conseguite, mi ha fatto riflettere molto sulla mia posizione professionale. La carriera è sempre stata un elemento importante per me ma capisco solo ora che la soddisfazione lavorativa non proviene solo dal grado di responsabilità raggiunto e dallo stipendio. Sentirsi parte di un team, sentirsi apprezzati e soprattutto sapere che il proprio lavoro contribuisce al benessere di una comunità sono le basi della soddisfazione professionale.
Grazie a questo lockdown ho capito che il mondo delle multinazionali non fa per me e in futuro, quando questa situazione finirà e il dinamico mondo del lavoro Inglese ritornera’ ad essere quello che era, cercherò di mettere la mia passione e le mie skills al servizio del benessere delle persone.

Voglio fare in modo che i beni culturali contribuiscano positivamente alle vite degli altri, che non siano solo il veicolo per un’azienda di creare profitto.

La situazione corrente ha inoltre messo in luce una vulnerabilità di cui non mi vergogno ma che fa parte di un approccio molto personale alla vita e dunque anche al lavoro. E’ proprio da questa vulnerabilità, e dalla passione che cela, che ripartirò dopo il Coronavirus, sperando in futuro di avere quel positive impact che tanto desidero.
Questo per me è il rinnovamento che l’emergenza deve stimolare: dobbiamo cercare di vedere oltre le necessità del capitale e valorizzare le persone e il loro benessere, all’interno delle nostre famiglie, comunità e oltre.

Albert Einstein scriveva “Strive not to be a success, but rather to be of value”  (Battiti non per essere di successo ma per esser di valore) e io credo che questa nuova consapevolezza del nostro valore umano diventerà il motivatore delle nostre scelte future, sicuramente lo sarà per le mie.

Patrizia Pierazzo, vicentina con laurea in Archeologia all’Università di Ca’ Foscari è oggi Senior Historic Buildings Specialist and Consultant a Londra, dove ha lavorato a lungo al Museum of London Archaeology .

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Più creativi, innovativi, consapevoli, chiediamoci come essere utili
(Sergio, Berlino)

La quarantena è stata una grande occasione per giocare con se stessi, trovare un modo per far amicizia con se stessi, Dobbiamo semplicemente capire he ruolo abbiamo nella società nella nostra comunità, cosa possiamo fare e come possiamo renderci utili. Riflessione in un video eccentrico e creativo.

Sergio Matalucci milanese è giornalista freelance a Berlino per diverse testate italiane, come scrittore e sta per pubblicare il suo primo romanzo

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Vincere (o perdere) tutti assieme: è il tempo della reciprocità non ideologica.
(Francesco, Milano)

Quello che il CoronaVirus spazzerà via senza pietà sono i pensieri senza respiro di chi è contro la scienza, le opinioni manipolatorie, smentite dalla misura dei fatti, il dilettantismo che uccide le persone, non solo le competenze, le fake news che per la prima volta vengono battute dalla velocità del vero, la volontà del popolo a cui nessuno affiderà la propria salute… E quando finirà, perché finirà, nulla sarà davvero più come prima. E ci ritroveremo in un mondo più consapevole, responsabile e felice di esserne uscito. Come in un dopoguerra senza guerra: quei momenti unici in cui si costruisce davvero il futuro.

Ci attende il tempo della reciprocità non ideologica, quella per la quale vincono tutti (o piuttosto perdono tutti). Il mondo femminile sembra pronto a cogliere questa opportunità, quello maschile invece non sembra essere psicologicamente attrezzato per farlo. Dal “Coming World Project” realizzato da Glaxi (il primo osservatorio permanente sul “mondo che verrà” di cui siamo partner) il mondo femminile dimostra la sua capacità di resilienza, coscienza e convivenza, elaborando le ragioni della quarantena, mentre quello maschile tende a nascondere, rimuovere e ignorare il problema. La svolta, se ci sarà, sarà femmina.

Alcuni linee di tendenza su cui ragionare: la velocità del virus smaschera la manipolazione di politici e complottisti, i protocolli collaborativi della scienza sgominano l’inutile opinione dei singoli, la Salute Pubblica e il Welfare femminile (Danimarca, Norvegia, Finlandia, ma anche Nuova Zelanda e Germania) straccia il Turbocapitalismo e i suoi campioni maschi e muscolari che ne escono con le ossa rotte (Johnson, Trump, Bolsonaro). La Prossimità (che non è Promiscuità) risponde al Distanziamento Fisico, il Capitale Sociale e l’Economia Civile indicano il giusto ritmo e la giusta distanza. Il Digitale dimostra di poter avvicinare e non isolare le Persone. Il resto è nelle nostre mani, con giudizio e discernimento.

Una grande sfida che ci troveremo ad affrontare sarà la ricerca del giusto ritmo. Il virus ci ha riportato al vissuto intenso degli a-priori kantiani: il tempo e lo spazio. La giusta distanza ma anche il giusto ritmo. Un vissuto del tempo più sano, con ritmi di vita in cui – dopo lo choc delle prime settimane – ci siamo volentieri accomodati, e a cui difficilmente rinunceremo in futuro.

La frenesia insensata di un pendolarismo permanente, lascerà il posto a una consapevole centratura su di sè e sui propri luoghi di vita. Vorremo essere sempre presenti a noi stessi e lo faremo nei nostri riti da cortile e da quartiere, ricostruendo una vicinanza che il distanziamento fisico nega, aprendo le porte al rammendo di un tessuto relazionale slabbrato. Il ritmo di una pedalata o il respiro di una pianta saranno la nuova misura, così come la scansione di una convivialità che sarà tutta da inventare.

A chi continua a credere che tra qualche mese tutto sarà dimenticato e torneremo a vivere come prima, rispondo: perché mai dovremmo rinunciare a ciò che ci è piaciuto? Per questo motivo molto semplice, vinceranno invece nuove priorità e nuovi obiettivi per la nostra vita futura. Si reagirà alla polverizzazione del tempo e al congestionamento degli spazi con una nuova consapevolezza e una possibile alleanza virtuosa tra pubblico e privato.

Francesco Morace sociologo e saggista fra i più attenti alle dinamiche della società italiana dirige a Milano il Future Concept Lab, che fra le varie iniziative promuove da tre anni una manifestazione itinerante dedicata all’innovazione, il Festival Crescita.

In uscita a luglio il suo nuovo libro “La rinascita dell’Italia” (EGEA).

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Da pandemia a epifania: stupito dalla resilienza dei giovani, unici a poterci salvare
(Elti, Pordenone)

Ho vissuto questi mesi di distanziamento sociale da sepolto in casa, avvolto da schiamazzi di vicini maleducati e spesso irrispettosi delle regole di sicurezza, aggrappandomi ad un unico e primario obiettivo: salvare la formazione dei miei studenti universitari, i miei ragazzi, che a dispetto del morbo e della clausura mi hanno seguito con passione nelle faticose lezioni online in streaming, in cui parlare di Fisica senza poter loro mostrare con efficacia un oggetto reale che rotola o di un gesso che cade per mia imperizia ma per colpa di Newton, è stata una conquista non da poco – con loro condivisa.

Da un po’ di tempo è possibile uscire, guardarsi attorno, vedere le persone e i loro comportamenti. No, le lezioni in presenza ancora no. Mi mancano gli sguardi dei ragazzi, mi manca di poterli vedere e capire in un istante se li sto ancora catturando o se la difficoltà dei concetti me li sta strappando pian piano, come fa l’odore della primavera quando in aula spalanchiamo le finestre… quello sarebbe il momento giusto per una battuta, o per portare il discorso su altri binari! Ho realizzato molto presto quanto importante sia il poterli vedere, ascoltare, letteralmente “annusare”, e quanto l’efficacia di una lezione di Fisica passi per una condivisione che è anch’essa fisica, mediata dai sensi.

Sì, da un po’ di tempo è possibile uscire, incontrare i parenti e gli amici. Esco con un senso di colpa e di gioia assieme. Di colpa, perché la cosa meno rischiosa per la collettività è ancora e comunque il confinamento. Di gioia, perché siamo animali sociali e almeno il potersi incontrare senza essere circondati da quattro mura ha l’odore della speranza.

A forza di restare chiuso in casa, l’oggetto più indispensabile è risultato essere il mio paio di occhiali… non è strano: con un orizzonte limitato a pochi metri lineari si guardano tutte le cose molto più da vicino – non soltanto gli oggetti, per i quali gli occhiali sono necessari soprattutto ad una certa età, ma in generale tutti gli aspetti che toccano la nostra vita quotidiana, in una necessaria e inevitabile riflessione “da vicino” su ciò che importa veramente. Chissà se la lezione servirà a farci capire qualcosa di importante su di noi, chissà se riusciremo a trasformare questa pandemia in una magari minima epifania. Uscendo, posso osservare i comportamenti di quelli della mia età, la specie di coloro che hanno figli giovani, da scuola superiore o da Università, e poi osservo invece come si muovono i ragazzi. Molta idiozia e incoscienza in quelli “della razza di chi rimane a terra” – giusto per utilizzare in questo contesto un alto verso di Montale – molta più maturità e autocoscienza nei giovani. Non mi interessa riporre speranza nei miei coetanei, sarebbe come scommettere su un pugile che torna sul ring a quarant’anni. Invece scommetto sulla resilienza dei giovani, sulla loro folle (ai miei occhi) disciplina nell’affrontare un cataclisma… sono loro che mi stupiscono veramente. Sono loro che voglio incontrare di nuovo al più presto.

Ragazzi, non seguo la vostra musica né le vostre serie su qualche piattaforma a me ignota… non capisco, sono forse un dinosauro, io alla vostra età ascoltavo sino alla consunzione del vinile Inti Illimani e Deep Purple, e guardavo film in bianco e nero. Ma è in voi e solo in voi che ho scorto di nuovo i colori del futuro, della possibilità, della rinascita. Avete gli strumenti per costruire, avete un’idea di collettività che non si ferma né davanti ai confini né alle lingue, siete molto più cittadini del mondo di quanto noi si possa pensare, siete gli unici a poter costruire un continente solidale.

Come Paolo Rumiz anch’io ho il dovere del pessimismo, ma il megafono adesso deve passare a voi: ragazzi, uscite dal silenzio, fate massa critica, rafforzate l’idea di collettività, di Europa, di regole giuste. Voi avete davvero gli strumenti per riuscire, per salvarci dai virus e dai barbari!

Elti Cattaruzza, pordenonese, laurea in Fisica, è Ordinario al Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ‘è delegato del Dipartimento per la Didattica e Prorettore al Diritto allo studio e servizi agli studenti. Ha partecipato a numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali, anche per il Dipartimento dell’Energia USA.

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Far vincere l’ingegno, non la paura.
E investire su se stessi
(Silvia, Dubai)

Siamo in quarantena. In lockdown. Si parole che per noi erano praticamente sconosciute sono diventate le prime che ci svegliano la mattina di questa primavera. Il cui timido inizio ci ha lasciati di stucco. E’ cambiato tutto.

Ma non puo’ cambiare niente. Eh?

Tutti i piani che avevi fatto a fine dicembre per l’anno nuovo. Tutti i tuoi buoni propositi di cambiamento. Ricordi? Volevi andare in palestra? Eh che bravo, eh no, eh niente, sarò per l’estate. Volevi cambiare lavoro? Ma che dici, cambiare lavoro? Devi essere gà’ ben felice di non essere tra quelli che non stanno più lavorando causa virus, già licenziati o cassintegrati. O di non essere tra quelli che sono costretti a lavorare non in sicurezza, grazie proprio al virus. Ah beh. Martiri al fronte. Invece di lamentarti, a loro ci hai pensato? E poi scusa un colloquio adesso chi te lo fa?

Ah. Giusto. Ok. Resto fermo. Che il 2019 tutto sommato non era neanche poi cosi male.

Ah no, magari eri tra quelli che volevano cambiare moglie, marito o finanzata/o. Eh. No. Niente. Famoso aperitivo rinviato. Yes. Rinviato. Beh almeno rinviato offline. Non prendere multe. Online ci si puo’ sentire. Ma, anche se tante storie nascono online, alla fine senza offline si fa ben poco. Forse.

E cosi nell’epoca dei più grandi cambiamenti della storia, siamo di fronte ad un grande paradosso: tutto cambia mentre niente può cambiare.

Casa. Lavoro. Compagni di vita. Rimane tutto cosi. Tutto statico. Tutto fermo a quel giorno in cui ci hanno detto di non uscire di casa.

Da quel giorno tutto eècambiato, ma niente puà cambiare. E’ un po’ come quella muffa che da tempo è rimasta là. Anche tu. Rimani là. E non puoi fare niente? Ma ne sei sicuro?

C’e qualcosa che puo’ cambiare? Si. C’è. Ma dipende se preferisci far vincere l’ingegno o la paura.

Possiamo cambiare noi. Siamo sempre noi? Quelli che ci lamentavamo di non avere mai tempo per nulla? Ora che vogliamo ancora? Di tempo ne abbiamo in abbondanza, forse anche troppo. Forse non siamo più abituati a gestirlo per investire su noi stessi. Ma possiamo farlo, ed è questa la nostra grande occasione. Perchè, vi avviso, là fuori quando sarà finito tutto sarà una giungla. Una guerra vera. Perche’ gli impatti economici non stanno li a guardare. E dovremo farci i conti. Ognuno di noi. Nel silenzio delle nostre famiglie. Dove i soldi per la spesa e le bollette da qualche parte dovranno pure saltare fuori.

Scegli la paura? Possiamo scegliere di vivere questo periodo pieno di paure, seguendo in maniera ossessiva compulsiva i Social, i TG, i discorsi di questo o quello, le teorie complottistiche, le cospirazione cosmiche. Non sono un dottore, non saprei, ma così, a naso, vi direi che il vostro sistema immunitario ne risentirebbe se decideste per questa prima soluzione per passare il tempo. Anzi forse ne sta già risentendo con notti agitate e insonni a vivere, o meglio senza vivere, questo periodo che va cosi.

Scegli l’ingegno? Possiamo scegliere di vivere pianificando il futuro e preparandoci al meglio per affrontarlo. Perchè, in fin dei conti, è vero che è una guerra, ma è una guerra che ci hanno chiesto di vincere dal divano. Una volta che avrai portato a casa la pelle, devi anche avere un lavoro, perchè se è vero che di virus si può morire, è pur certo anche vero che si puoòmorire anche di fame. E non e’ certo bello farlo fissando un bel piatto condito di F24. Perciò cosa stai facendo? Mio consiglio: ok stai chiuso in casa, ma non far vincere la paura. Aguzza l’ingegno. Datti una mossa. Stai fermo, ma senza stare fermo.

Investi al meglio il tuo tempo in questo periodo.

Bisogna reinventarsi fin da subito il modo in cui faremo business. O di trovare clienti. Di trovarsi un nuovo lavoro. Il tutto non solo in Italia, ma anche all’estero. Perchè la buona notizia è che tutto questo sta dando movimento al mercato del lavoro e questo storicamente ha sempre dato ottime occasioni di risposizionarsi non appena il mercato ripartirà.

Quando tutto questo ce lo lasceremo alle spalle, si faranno dei grandi affari. E bisogna essere pronti. Tu lo sei?

Ho deciso di spendere il mio tempo nelle prime due settimane di clausura, preparando per voi questa guida, un concentrato di consigli su come sfruttare al meglio l’algoritmo di LinkedIn, e vari altri strumenti di intelligenza artificiale per i vostri scopi, sia per trovare un nuovo lavoro o nuovi clienti. Fate voi. Ma fate qualcosa. Che quando vi ricapita di aver cosi tanto tempo di investire su voi stessi, invece di star imbottigliati nel traffico.

Io non scelgo la paura in questo periodo. Scelgo l’ingegno, e ve lo metto a disposizione gratuitamente per la lettura. Una lettura in cui vi accompagnerò passo passo nel vostro nuovo viaggio di carriera. Quando siete pronti, venite con me qui, il vostro nuovo e brillante futuro comincia ora (qui il link ad Amazon), il vostro nuovo e brillante futuro comincia ora.

Silvia Vianello originaria di San Donà di Piave (Venezia) dirige l’Innovation Center International Marketing and Communication di Dubai (Emirati Arabi Uniti), dov’è stata direttrice Marketing di Maserati.

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Anche nello sport, il virus si combatte con comportamenti virali
(Luca, Milano)

Non sono stato agli Europei di calcio, non sono stato alle Olimpiadi di Tokyo. E’stata una stagione tale di assenze, che parliamo al passato di eventi che ancora avrebbero dovuto cominciare: il 12 giugno gli Europei, una festa itinerante per i 60 anni della Uefa, il 24 luglio i Giochi di Tokyo chiesti e ottenuti dal Giappone sette anni fa per avere dall’abbraccio del mondo la forza di ripartire dopo il disastro di Fukushima,

Insomma, siamo stati catapultati in una nuova dimensione, col calendario che ha perso la sua essenza positiva di agenda e ha assunto le sembianze di un elenco di assenze, di negazioni. Forse anche per questo ci siamo aggrappati a ogni formula possibile, senza neanche capirne il significato: possibile, mi chiedo, parlare di distanziamento sociale, il nemico che dovremmo combattere anche in questi tempi difficili, quando dovrebbe essere più logico parlare di distanziamento fisico, distanti ma uniti?

Bisogna fare attenzione alle parole. Sbagliate chiudono le porte. Indovinate, giuste, sono un faro che illumina il tunnel e ci riporta alla luce. Il mio faro, da sportivo confinato in casa, nessun evento da commentare, nessuna gara da seguire, dunque anche una progettualità ridotta al minimo, è stata questa frase: un virus si combatte con comportamenti virali. Il gesto eroico, ma solitario, di un supereroe non basta. Non solo: svela la debolezza del supereroe, la sua autorereferenzialità, che è poi la autoreferenzialità dello sport che ha continuato, pure di fronte all’evidenza, a dire che i Giochi ci sarebbero stati ( e adesso invece c’è chi persino in Giappone non è sicuro che si possano tenere l’anno prossimo, della Serie A di calcio che provando a essere più forte del virus ne è stata semmai sconfitta, incapace di esprimere un piano B, incapace persino di conoscere e riconoscere le proprie debolezze

Un virus si combatte con comportamenti virale è un invito, per me, a ritornare alle radici dello sport: dire che l’importante è partecipare non significa volersi rifugiare in un dilettantismo anacronistico, significa piuttosto riconoscere che d’ora in poi lo sport si dovrà impegnare più per i contenitori che per i contenuti.

Bisogna rendere lo sport un ambiente sicuro, persino bello da frequentare, prima di invitare ogni tipo di pubblico, allo stadio, davanti alla tv e sui social a vedere quanto è bella una rovesciata di Ronaldo. Prima essere un ambiente, poi, subito dopo, pensare all’ambiente. Ragionare e progettare ogni impianto, ma anche ogni evento, ogni gara in modo inclusivo. Pensiamo ai runner: da Mattia in poi, dal paziente1 a oggi, hanno attraversato tutte le categorie sociali, sono stati considerati untori della peggior specie quando per una loro corsa non si preoccupavano delle norme, e delle paure, che valevano per tutti gli altri, e adesso tornano a essere ambasciatori di una evidenza che per noi, eredi dei romani, dovrebbe essere quasi genetica, mens sana in corpore sano. Eppure, proprio le maratone dovranno cambiare se vorranno sopravvivere: nessuna partenza di massa e, prima, nessun bivacco, lasciato al via pieno di rifiuti di ogni genere. Dunque meno affollamento: la qualità vince sulla quantità. Da qui, altra lezione per il mondo dello sport.

Un virus si combatte con comportamenti virali significa essere capaci, avere la forza di applicare la proprietà distributiva. Smettiamola di pensare alla squadre come gruppi di undici giocatori che al novantesimo minuto escono dal campo, pensiamo piuttosto a communities che vivono secondo i codici spazio-temporali dei social: everywhere, e 24/7/365.

Dunque, non piangiamo per il calo delle sponsorizzazioni, e dimostriamo di saper reagire: non possiamo chiedere alla società cosa può fare per lo sport, dobbiamo dimostrare cosa lo sport può fare per la società. Capendo, ad esempio, che il crowdfunding è una risorsa straordinaria, se si è capaci davvero di contarsi. Lo diciamo da sempre che un virus si combatte con comportamenti virali: l’unione fa la forza. E per questo, convinzione più che convenienza, o, peggio, convenzione, sto per lanciare un profilo Facebook, Mi faccio in quattro per …, che sarà motore di una campagna di crowdfunding multicanale.

Luca Corsolini giornalista sportivo dopo un lungo periodo a Sky è oggi specialista della comunicazione sportiva, impegnato nel promuovere formule innovative di CSR (nella sua originale accezione, Responsabilità Sociale dello Sport).

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Di nuovo capaci di raccontar storie complesse e dar senso al tempo
(Paolo, Brianza)

In citazioni eccentriche (da “Harry Potter e i doni della morte”, J. K. Rowling) gli spunti per “leggere” il momento di trasformazione che viviamo con l’emergenza sanitaria. Più consapevoli, pronti a montare su un treno che ci porterà… “avanti”.

Paolo Vismara, docente creativo in Brianza, lauree in Scienze Naturali e Scienze Preistoriche, PdD in Scienze Naturalistiche e Ambientali, ideatore del format BH678 per l’introduzione della Big History nelle scuole italiane.

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Dopo il naufragio, salvati dall’altruismo: una ballata
(Franco, Asti)

La nave Italia (ispirata a “La Ballata del Vecchio Marinaio” di Samuel Taylor Coleridge, 1798)

Allentate e sdrucite eran le vele,

fiacco e tarlato l’albero di mezzana,

le crepe sul ponte nascoste da tele,

la ruggine coperta con pezze di lana.

Dalle sartie lente pendevan cime strappate,

la prua affondava stanca fra onde morte.

La ruota del timone era allentata,

da poppa si vedevan solo scie contorte.

E la nave andava, senza una rotta

né una meta precisa, seguendo le correnti,

spinta dall’aria fioca, un po’ corrotta,

lenta e pigra, ed in balìa dei venti.

Poi di colpo arrivò cupo un presagio,

nuvole rosse, quasi viola, in cielo.

Un tramonto col sole che calava adagio.

E a metà della notte si squarciò il velo.

Una tempesta mai prima immaginata.

Saette, tuoni, raffiche da paura,

montagne d’onde sulla nave sbandata,

la ciurma tutta temeva la sventura.

In breve tempo le vele stracciate

finirono a pezzi nel mare in burrasca.

Le scialuppe dagli argani strappate,

l’albero di maestra uscì dalla sua tasca.

Seguivano la nave con ali spiegate

i bianchi gabbiani e le procellarie

in attesa che dalle stive allagate

uscissero le provviste e tutte le cibarie.

Ad una ad una si apriron le fiancate,

entrò l’acqua del mare, inarrestabile,

tutte le vecchie assi si erano sfasciate,

e la nave andò giù, a fondo, inesorabile.

In superficie era un brulicar di legni.

Gabbiani e procellarie eran fuggiti.

All’alba il mare tornò calmo, e i sostegni

furono colti da due uomini atterriti.

Il nostromo era aggrappato al boma,

il timoniere alla ruota del timone

pregando il Dio del mare nel suo idioma

che un miracolo gli salvasse il paglione.

Ed ecco da lontan venir per mare

un barcone pieno di subsahariani

partito giorni prima per scappare

da fame e guerre, ma a lor tesero le mani.

Franco Francescato, bolognese, scrittore di racconti, già pubblicitario, è produttore di vino nel Monferrato (si definisce “ottimista per disperazione”)

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Più consapevolezza e conoscenza, meno banalizzazioni e slogan
(Carlo, Bruxelles)

Mentre scrivo, mi affaccio dalla finestra e vedo Bruxelles, la città che mi ha accolto dal 2014 come migrante economico assieme a decine di migliaia di altri italiani, anche se qui ci chiamano “expats” o “cervelli in fuga” per distinguerci dai migranti economici meno fortunati di noi.

Ringrazio il paese che mi ha accolto, l’Europa che mi ha regalato l’Erasmus, le lingue che mi hanno consentito di lavorare all’estero per salvarmi dalla crisi che ha reso troppo precari e umilianti i mestieri di insegnante e giornalista, che ho provato a fare in Italia senza riuscire a trasformarli in professioni stabili. E così mi sono ritrovato a fare l’ingegnere in una agenzia esecutiva della Commissione Europea, vivendo in Belgio l’esperienza della pandemia.

Il clima sociale che ho vissuto a Bruxelles è stato diametralmente opposto a quello che mi raggiungeva in Italia dai teleschermi: non c’è mai stato il divieto di passeggiare, solo l’obbligo di stare a distenza (ma ho visto pochissima gente per strada) non c’è mai stato l’obbligo di usare la mascherina (ma l’ho vista usare comunque nei luoghi più affollati) non c’è mai stato il divieto di fare sport. In breve: ho avuto la sensazione che il governo abbia trattato da adulti i cittadini, e per una profezia autoavverante la risposta è stata un comportamento adulto.

Qui a Bruxelles in tempi “previrali” ho potuto iniziare anche un percorso di studio post-universitario dove l’oggetto delle mie ricerche è la fiducia nella comunicazione scientifica, che mai come oggi si è rivelata fondamentale, perchè con l’esplosione della pandemia è passata dal singolare al plurale. È così che siamo stati raggiunti dalle comunicazioni scientifiche provenienti da amministrazioni pubbliche locali, regionali e nazionali, istituzioni sanitarie come OMS o l’ISS, singoli esperti o ricercatori che hanno condiviso le loro convinzioni teoriche, operatori sanitari sul fronte dell’emergenza che hanno condiviso le loro esperienze pratiche.

E non sempre tutte queste comunicazioni sono state concordi e convergenti, a conferma che la gestione di un’emergenza sanitaria è un esercizio molto complesso di amministrazione pubblica che non riguarda soltanto aspetti medico-sanitari, ma anche questioni economiche, logistiche, urbanistiche, sindacali, sociologiche, familiari, psicologiche, e perfino tecnologiche, tra app per smartphone, videocamere di sorveglianza e perfino in alcuni Paesi droni a quattro zampe sguinzagliati nei parchi per sollecitare i passanti a rispettare il distanziamento sociale.

Ragionare su tutto questo mi ha convinto che la sfida più grande che nei prossimi anni si troverà ad affrontare la comunicazione scientifica (e forse anche la società nel suo complesso) sarà la comunicazione dell’incertezza, che ha come suo corollario la comunicazione della complessità.

Attorno a me, nella piccola comunità di famiglie solidali che forma la mia rete di relazioni a Bruxelles, percepisco la convinzione che dalle ceneri di questa pandemia possano nascere rapporti nuovi con l’ambiente, il tempo, il lavoro, la salute, l’istruzione e le città dove abitiamo, una convinzione che poggia le sue fondamenta sulle solide elaborazioni prodotte da decenni di critica ecosostenibile al capitalismo, che ha già prodotto nuovi modelli di lavoro, di produzione di sviluppo economico, di trasporto pubblico, di consumo, di approvvigionamento e di distribuzione delle risorse.

Ma l’ottimismo della volontà va sempre bilanciato col pessimismo della ragione, e ragionando sulla nostra storia non mi aspetto che da questa esperienza l’umanità impari più cose di quelle che ha imparato dopo Auschwitz o Hiroshima, né mi aspetto che con la prospettiva della pandemia la comunità delle nazioni possa produrre slanci di cambiamento più coraggiosi di quelli realizzati con la prospettiva della mutua distruzione atomica che ha segnato la mia generazione.

In questo difficile equilibrio tra ragione e volontà, alla ricerca di un “realismo ottimista”, sento che anche senza illuderci su una situazione complicata da risolvere e complessa nelle sue dinamiche possiamo guardare verso un futuro dove ci sarà meno spazio per le banalizzazioni, le impersemplificazioni, gli slogan, i manifesti politici urlati in tre parole col punto esclamativo alla fine.

Questa esperienza ci ha reso più consapevoli di quanta fragilità e interdipendenza ci sia nella nostra condizione umana, e sono persuaso che i ragionamenti fatti da qui in avanti terranno in maggiore considerazione, anche se a livello inconscio o istintivo, l’esistenza di quello che vive fuori da noi, della complessa rete di relazioni che ci lega in maniera inestricabile a qualunque altro organismo vivente.

L’autoeducazione all’interdipendenza attraverso la riflessione sulle proprie esperienze individuali l’ho ritrovata in questi giorni in un discorso di Martin Luther King del Natale 1967, pochi mesi prima del suo assassinio (traduzione mia):

Alla fine tutto si riduce a questo: ogni vita è interdipendente. Siamo tutti dentro una inestricabile rete di aiuto, legati alla stessa trama del destino. Quello che colpisce uno in modo diretto, colpisce tutti indirettamente. Siamo creati per vivere insieme in virtù della struttura interconnessa della realtà. Ti sei mai fermato a pensare che non puoi nemmeno uscire di casa per andare in ufficio senza essere dipendente dal mondo? Ti svegli, vai in bagno e un abitante delle isole del Pacifico ti ha passato la spugna. Cerchi la saponetta, e te la porge un francese. Vai in cucina a bere il caffè, e te lo versa un sudamericano. Oppure prendi del té, che ti viene versato da un cinese, o del cacao, che arriva da un africano dell’ovest. Poi prendi il tuo toast, servito da un contadino e da un panettiere che parlano inglese. E prima di aver finito la tua colazione, sei già dipendente da più della metà del mondo. Il nostro universo è fatto così, la sua natura è interconnessa. Non avremo pace sulla terra fino a quando non riconosceremo l’evidenza basilare della natura interconnessa della realtà”.

Con queste parole del reverendo King che danno speranza anche a mezzo secolo di distanza, voglio augurare a tutti noi che il passaggio attraverso questa pandemia possa segnare un punto di non ritorno verso una società più consapevole della complessità e dall’interdipendenza, pronta ad affrontare l’incertezza a viso aperto con lo studio, la conoscenza e la necessaria dose di creatività, senza lasciare spiragli all’ignoranza e alla sua figlia chiamata paura.

Abbiamo l’opportunità di passare dalla comunicazione veloce alla comunicazione efficace, dal tweet al libro, dalla polemica allo studio, dalla scienza aristocratica alla “Citizen Science” partecipata, dallo scontro sui social network all’incontro nelle comunità locali potenziato dalle tecnologie informatiche. E sono convinto che questa opportunità sapremo coglierla.

Carlo Gubitosa di Taranto, giornalista e attivista nel campo dell’ambiente e dei diritti umani, è IT Helpdesk Analyst -System Administrator INEA  (Innovation And Network Executive Agency) agenzia della Commissione Europea a Bruxelles